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15 ago 2022

Zucchero bruciato di Avni Doshi

 




Scritto molto bene, il libro è ricco di immagini insolite, originali, e le quattrocento pagine circa scorrono leggere, attraversando il dolore di una vita e la sensazione di impotenza e rabbia che l’Alzheimer lascia come ricordo principale bei caregiver. 


Contrariamente ad altri libri che raccontano l’involuzione dei malati di Alzheimer, qui la malattia fa solo da sfondo alla relazione tra Tara, la madre, e Antara, sua figlia, un rapporto complesso la cui definizione è già nella scelta dei nomi: Antara è la negazione di Tara.


Proprio nella età in cui Antara potrebbe finalmente ragionare con sua madre e farle scontare il dolore da lei provato nel seguirla ovunque nelle sue ribellioni, perfino nell’allontanamento dal padre, Antara si trova di fronte una madre che non ricorda più nulla. O forse ricorda solo qualcosa, quel volto che sua figlia incessantemente ogni giorno copia da una vecchia fotografia, e che potrebbe unirle o lacerare il loro rapporto per sempre.


“Sono in macchina da sola, viaggio verso l’appartamento di Ma per prendere le sue cose e mi sento inceppata come il nastro di una cassetta, indecisa su come prepararla a dire addio e al miglior modo per farlo. Perché anche noi dobbiamo metabolizzare questa inappellabile fine, tanto quanto lei, anche se sarà difficile, dato che lei sarà sempre lì, giorno dopo giorno, con lo stesso aspetto e lo stesso modo di comportarsi. Questa è una perdita lunga ed estenuante, in cui si sparisce un pezzettino alla volta. Forse, allora non c’è altro da fare se non aspettare, aspettare finché lei non sarà più lo nel suo guscio, e allora potrà iniziare il lutto, un lutto pieno di rimorsi perché non ci saremo mai chiarite.


Credevo che crescere significasse che con l’età tutte le mie domande avrebbero trovato risposta, che in futuro i miei desideri sarebbero stati esauditi ma, mente gli anni passano e io mi ritrovo a rimpiangere la mia giovinezza, si è consolidata l’abitudine ad attendere. È radicata in profondità, una cosa di cui sembra non riesca a liberarmi. Mi chiedo se, quando sarò vecchia e fragile e vedrò la fine prendere forma davanti a me, sarò ancora lì ad aspettare l’arrivo del futuro.


La perderò un poco alla volta. Alla fine sarà come una casa da cui mi sono trasferita, dove non c’è più niente che mi sia familiare.”


Avni Doshi, Zucchero bruciato

27 apr 2020


David Grossman
Applausi a scena vuota

“Un ragazzino di cinquantasette anni che si riflette in un vecchio di quattordici.”

Sul palcoscenico, pura improvvisazione di un attore, che trova il modo di purificare la sua anima nel ricordo della terribile giornata nella quale, quattordicenne, deve affrontare un viaggio di rientro a casa dal campeggio in cui si trova, per il funerale di un genitore, all’oscuro della risposta inconfessabile a una domanda di tre parole “chi è morto?”.
In platea un suo vecchio amico, ora giudice, chiamato da lui per vedere lo spettacolo e rispondere a una difficile domanda, ciò che un uomo trasmette inconsapevolmente e forse è l’unico al mondo a possedere.

Un Grossman che sfiora delicatamente sentimenti come l’amicizia, l’amore, i rapporti familiari e sociali, la crudeltà, il rimpianto, l’amara presa di coscienza da adulti di ciò che si è vissuto da ragazzini, con la bellezza di una scrittura che non può non coinvolgere.

“Sento che mi sussurra all’orecchio una frase del nostro amato Ferdinando Pessoa: Basta esistere per essere perfetti”.


E per David Grossman, basta scrivere per essere perfetto, come sempre.


Audace nella struttura l’ultimo romanzo di David Grossman. Servendosi dei mezzi espressivi tipici del cabaret, l’autore mette al centro della scena un singolare personaggio, Dova’le, che con la sua arguzia si rivolge direttamente al pubblico, a poca distanza da lui. Il monologo del protagonista si alterna, nel corso della narrazione, alle osservazioni e ai ricordi del giudice Avishai Lazar, suo amico d’infanzia, che ha accettato con molte perplessità di assistere allo spettacolo. Ciò che appare immediatamente evidente è la volontà dell’attore di porre il suo pubblico di fronte alla realtà spogliata di ogni falsa apparenza. Prima di addentrarsi nel racconto della sua vita egli si rivolge infatti a singoli individui in sala, senza risparmiare loro osservazioni dure e talvolta offensive. Appare qui subito evidente l’eredità shakespeariana del personaggio del clown e della sua funzione di denuncia. Dova’le, infatti si presenta subito come un buffone al centro della scena. Con l’intento di alleggerire la rappresentazione, egli alterna al racconto drammatico vere e proprie barzellette, più gradite al pubblico. Non a caso informa quasi subito lo spettatore della sua abitudine giovanile di camminare sulle mani e vedere il mondo alla rovescia. Questo atteggiamento bizzarro nasconde una tragica visione della vita. Sin da bambino, infatti, Dova’le non riesce a stabilire un rapporto armonioso con la realtà che lo circonda. Dal racconto del suo tormentato viaggio attraverso il deserto per ritornare a casa dal campeggio militare dove si era recato, richiamato per la morte d’un genitore, emerge tutta la sua disperata solitudine accentuata dall’angoscia di non sapere se sia morto suo padre o sua madre. Ritornano così alla sua mente fatti della vita quasi sepolti in un piccolo spazio di memoria dove è sempre presente il dramma della Shoa.
Come i personaggi di Pinter, Dova’le è chiuso anch’egli nella sua “stanza dell’oppressione” nella quale egli intende trascinare anche il suo pubblico persuadendolo della necessità della ricerca della verità. Immergersi nel suo passato gli serve per denunciare insieme ai suoi limiti, anche i limiti e le colpe di chi lo aveva conosciuto nel passato e aveva mostrato indifferenza verso il suo destino.
Il contatto diretto con il pubblico agevola la comunicazione. Solo di tanto in tanto Dova’le si rifugia in una poltrona, unico arredo del palcoscenico, che ha lo scopo di sottolineare il limite entro cui egli stesso è chiuso. Il suo spettacolo tuttavia non è gradito a tutto il suo pubblico. Una parte di esso desidera rifugiarsi in qualcosa di illusorio e sfuggire alla cruda rappresentazione della realtà. 
La presenza del giudice Avishai, tanto desiderata da Dova’le, al suo spettacolo, assume un significato più sottile, proprio alla fine del monologo. Giudicare senza partecipare emotivamente non è sempre garanzia di equilibrio e obiettività. Giustizia non è negazione di umanità. Dova’le desidera che l’amico d’un tempo si senta finalmente partecipe della sua storia e ne dia un giudizio sereno.
“Per lo meno rimarrà qualche parola di me […] Come la segatura dopo il taglio di un albero ….”
Personalmente, egli ha finalmente preso coscienza del significato dei drammi vissuti. Rivisitare il passato gli ha permesso di penetrare nell’animo delle persone che ha amato. Presupposto essenziale per non dovere più camminare a testa in giù.


11 lug 2019

Il bruco e la farfalla, di Carla Pavone


Un vedovo di ottantatré anni decide di lasciare la sua casa e la sua famiglia per ricoverarsi in una struttura per anziani, con la speranza di liberarsi di tutti quei fardelli che gli ingombrano la giornata e godersi così i pochi anni che gli restano. Una scelta volontaria e insolita di un uomo che non si è mai arreso nella vita, e che anche a quest'ultima sfida si fa trovare pronto e desideroso di trarne il meglio. Quello che non sa mentre viaggia verso il suo nuovo domani, è che all'arrivo lo aspetta la malattia, quella che ha sempre temuto e osteggiato, di fronte alla quale il suo coraggio guerriero trema e cede. Da solo, in un letto di ospedale, ripensa alla sua vita, mette a posto ciò che aveva suo malgrado lasciato in sospeso, e alla fine si abbandona al destino, con una compostezza e lucidità che nemmeno la malattia è riuscito a togliergli.



11 mag 2019

La scarpa di Bahaa, di Carla Pavone e Pasquale Balzano

Nel piccolo paese di Balzanò di sotto, in provincia di Milano, qualcuno ruba le offerte della Chiesa e, come se non bastasse, una notte come tante altre, va a fuoco una piccola fabbrica. Chi è il colpevole? I sospetti non... possono che ricadere su Bahaa Bakkar. Bahaa è un migrante, ospitato dal centro di accoglienza del paese, è appena arrivato, è il diverso che deve essere per forza il colpevole.
In scena, mentre la tragedia personale di Bahaa si compie, si muove l'intero paese, chi è certo della colpevolezza del giovane perché gli immigrati sono colpevoli per forza, chi pensa al decoro urbano, chi solo al proprio meschino tornaconto.
Un testo coraggioso perché supera i lughi comuni consigliato a tutti coloro che ancora credono che inclusione e accoglienza siano valori universali